La storia di Ascoli Piceno
LA STORIA DI ASCOLI PICENO
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Le popolazioni più antiche che hanno abitato Ascoli Piceno hanno lasciato tracce della loro presenza risalenti fino all’età paleolitica. Solo più tardi, dal neolitico e dall’età dei metalli, le testimonianze diventano più probanti ed attestano insediamenti stabili ad economia agricola e pastorale.
All’inizio del 91 a.C. scoppia la guerra sociale, combattuta dalle genti italiche contro la supremazia di Roma. Ascoli ha un ruolo tanto importante da segnarne addirittura l’avvio. Rivendica in nome delle popolazioni italiche – socii – la cittadinanza romana per compartecipare alla amministrazione ed alla direzione dell’impero in condizione di parità.
Tanti Ascolani danno prova di sublime valore e di ingegno militare. Ventidio Basso, figlio di un generale ascolano portato a Roma assieme alla mamma dietro il carro trionfale di Strabone, raggiungerà gli alti gradi di pretore e pontefice. Tito Vetuzio Barro diventerà pure celebre a Roma. Ma i Romani vincitori non hanno pietà dei vinti. I capi vengono trucidati, molti abitanti mandati in esilio, come testimoniano gli storici dell’epoca. Floro scrive che l’intera città viene distrutta, ma probabilmente è una esagerazione se si fa fede a Cicerone, che poco dopo definisce Ascoli municipalis honestissimi ac nobilissimi generis. Cesare ha fretta di impadronirsi della città, allorché passa il Rubicone, mettendo in fuga Lentulo Spintere che prima aveva occupato Ascoli con dieci coorti. Plinio parla di Ascoli come di colonia di notevole importanza. Antiche iscrizioni ne attestano la ragguardevole posizione raggiunta. Negli Itineraria romani, descrizioni schematiche di tipo logistico delle vie del tempo, si parla di Ascoli sita sulla Salaria, la quale parte da Roma, a Porta Collina, passa lungo il Velino ed il Tronto, raggiunge Asculum a 120 miglia circa per poi arrivare a Castrum Truentinum, alla foce del Tronto sulla costa adriatica.
Ascoli viene citata con onore nella divisione delle province fatta da Augusto e poi da Antonino Pio nel 152 d.C.. Sotto quest’ultimo imperatore, Asculum conosce la prima persecuzione cristiana con tanti martiri, tra cui Santa Venera e Sant’Antimo. Nel 301 la città è sede del governatore del Picenum Suburbicarium in contrapposizione al Picenun Annonarium, facente capo ad Ancona. Nello stesso anno arriva il primo vescovo residenziale, Sant’Emidio, il quale, designato per decisa volontà di Papa Marcellino, malgrado il suo timorato rifiuto, riesce in breve tempo ad infondere una nuova vita alla comunità cristiana picena ed a conquistarsi una indiscussa autorità spirituale. Con la calata dei barbari, Ascoli conosce una sensibile decadenza economica ed intellettuale. La miseria diffusa e crescente non sono né stimolo né conforto a nuove costruzioni. La vita si riduce ad una economia di sussistenza, rifugiata nel grembo delle chiese e delle pievanie. Ascoli riesce a difendersi dai Visigoti di Alarico e di Ataulfo, i quali, impressionati dalla cinta muraria e dall’invalicabile fossato naturale costituito dal Tronto e dal Castellano, si allontanano dalla città senza prenderla. Rifocillano i propri uomini e cavalli nella campagna circostante, razziando ed uccidendo dove possono. La situazione strategica della città li consiglia a rivolgere altrove le loro mire. Riesce nell’intento, invece, il gotico Totila, il quale, dopo aver occupato tutti i castelli della campagna, cinge d’assedio la città. Questa deve cedere, complice non solo la fame, ma anche la peste. Paolo Diacono ricorda Asculum come il centro principale del Picenum. Nel 553, dopo la sconfitta e l’uccisione di Totila e di Treia, la città passa all’esarcato di Ravenna e dentro le sue mura si stabiliscono molti Greci. Il potere, di nome, viene esercitato da un Archonte o Dux, ma di fatto da un vescovo, il quale va accentuando, sempre più, la propria autorità.
Nel 774, il Duca di Spoleto, Ildeprando, si assoggetta alla Chiesa e si rade la barba in segno di sottomissione, secondo la consuetudine romana. In segno di riconoscenza per tale gesto, malgrado la sconfitta longobarda da parte dei Franchi, Papa Adriano reintegra il Duca nella sua carica alla condizione che si metta alle dipendenze di Carlo Magno. Prende, così, forma il disfacimento dei poteri dei duchi di Spoleto, i quali vanno diventando sempre più nient’altro che semplici funzionari della dinastia carolingia. Tale processo storico si completa nel 789, allorché il franco Guinigiso segna la fine della dominazione longobarda e della sua influenza sulla città di Ascoli, fino a quella data legata alle vicissitudini del Ducato di Spoleto. Ascoli diventa, così, una contea sotto la protezione del pontefice, con un conte laico a capo, coadiuvato, nell’esercizio del potere, dalla nobiltà locale. Assurge al rango di capoluogo di contea del Sacro Romano Impero, alle dipendenze di Carlo Magno, che le riserva una condizione giuridica particolare, dovuta alla singolare posizione strategica. Da Ascoli Carlo, infatti, può facilmente raggiungere Roma per rivendicazioni di ogni tipo, passando per la Salaria o per il Ducato di Benevento, di là dal Tronto.
Dopo la breve parentesi orientale, le lotte tra partigiani dell’impero e del papa riprendono più violente che mai, pur con temporanei armistizi. Solo il vescovo Presbitero riesce a comporre le fazioni, dopo aver invitato in città nientemeno che l’imperatore guelfo Lotario, il quale lo nomina conte. La successione al trono del ghibellino Corrado III complica la situazione, ma, ancora una volta, Presbitero riesce a dominare le parti contendenti, recandosi in Germania, malgrado i tempi difficili, per implorare i buoni uffici dell’imperatore. Questi, per compensarlo, lo eleva alla carica di principe, titolo che ancora oggi i vescovi ascolani conservano di diritto. Se grandi sono le opere spirituali ed umanistiche di Presbitero, grande pure è il dolore nel vedere gli scempi ed i lutti che arrecano i soldati del Barbarossa, capeggiati dal legato Cristiano di Magonza. Con il 1183, anno della morte del vescovo Gisone, Ascoli ha il suo primo podestà e la costituzione di un governo municipale come altre città italiane. Ha termine, così, il duplice potere, religioso e laico, dei vescovi-conti e si instaura il regime comunale, salva maiestate pontificia. Enrico IV, venuto in Italia per liquidare l’infelice Manfredi, conte di Lecce, viene ricevuto ed osannato in città per ben due volte. Nel 1225 arriva San Francesco per predicare la pace e mettere su il primo convento ascolano con trenta chierici e laici. Federico II occupa e saccheggia Ascoli per ricondurla all’obbedienza dell’imperatore. Una tradizione vuole che la città, prima della distruzione di 90 torri operata da Federico II, ne contasse ben 200. E’ probabile che la cifra sia leggermente esagerata, ma la città rimane in preda alle fiamme per più giorni, per la terza volta nella sua storia. I consoli vengono incatenati ed imprigionati, il vescovo bandito, il dinasta guelfo ucciso nell’eccidio. Su quell’immane tragedia la fazione ghibellina celebra il suo trionfo, trasformando la vecchia contea in un forte stato comunale, legato alle sorti dell’imperatore. Questi, ben conscio che la posizione della città gli offre la possibilità di rapide incursioni strategiche verso qualunque obiettivo, le concede il diritto di costruire il suo porto fortificato alle foci del Tronto, l’antico Castrum Truentinum, ormai insabbiato e distrutto dal tempo. Tale privilegio, portato a compimento nel giro di tre anni, lede la vecchia concessione fatta da Ottone IV a Fermo sul pieno possesso del litorale adriatico dal Potenza al Tronto. Si innescano, così, lunghe e funeste guerre tra le due città che durano, con alterne vicende, fino alla prima metà del XVI secolo. Il papa Giovanni XXIII, nel 1323, dà alla concessione imperiale la controfirma papale, confermando agli Ascolani il possesso, in feudo perpetuo, del porto, capace di navi turrite, di galee e di barche da carico e scarico. Lo stesso pontefice pone i suoi buoni uffici perché Ascoli e Venezia firmino un patto di amicizia e di mutua assistenza per gli affari marittimi. Le ostilità tra Ascoli e Fermo sono così frequenti ed abitudinarie da essere considerate dagli abitanti una sorta di calamità naturale. Al primo scontro, avvenuto vicino al Tronto, hanno la peggio gli Ascolani, ma, tre anni dopo, si prendono la rivincita sui rivali. Segue la lunga guerra del 1280-86 che si chiude con l’invito del Papa ai due contendenti a placare gli animi e a ritirarsi nelle proprie terre.
Nasce un’insurrezione popolare al grido “morte al tiranno”. Viene messo in fuga il Malatesta e i suoi scherani, scappando, non mancano di incendiare e saccheggiare i castelli limitrofi. Gli Ascolani riottengono la loro repubblica, ma devono subire nel secolo successivo, le vessazioni del conte Francesco Sforza. Questi, eletto dal Pontefice Vicario della Marca, mette la sua sede in Ascoli e, per paura di congiure, la riempie di patiboli. Ad Antonio Bentivoglio, che cerca d’insidiargli la Marca, riserva una tortura d’eccezione. Catturatolo, lo mette in prigione a Fermo, lo fa torturare a lungo, poi lo fa incapsulare in una pelle fresca di vacca per essere quindi sepolto vivo a testa in su. Un po’ di pane ed acqua al giorno, fino a quando la cancrena non lo divora completamente nella pelle resa putrida dal tempo. Malgrado tali supplizi, facili a trovarsi in un tempo che ha altrove i Borgia a signori, l’Ascoli del Quattrocento e del Cinquecento è un fervido cantiere di opere pubbliche e private. Il denaro gira forte. La città ha più che buoni rapporti commerciali e politici con Venezia, Firenze, Roma, Genova, Napoli. Vive in pieno il rinnovamento culturale, umanistico e rinascimentale del tempo. Storiche sono le opere urbanistiche realizzate. Gli Ascolani riescono a liberarsi dagli Sforza, grazie ai guelfi capeggiati dai Dal Monte, Sgariglia e Saladini, a loro volta aiutati da un centinaio di montanari di Luco di Acquasanta, capitanati da Vanne Ciucci. Riottengono l’ordinamento repubblicano nel 1482, ma devono sborsare 3000 scudi di tributo annuo al papa Sisto IV per il riconoscimento della libertas ecclesiastica che garantisce la libertà repubblicana, fatta salva la sovranità pontificia e la dipendenza da Santa Madre Chiesa. La città diventa, intanto, preda delle fazioni interne, guelfi contro ghibellini, ghibellini contro guelfi, gli uni e gli altri, a loro volta, contro altre fazioni e sottofazioni interne. Primeggiano i Guiderocchi, tipici rappresentanti di una nobiltà ascolana desiderosa di far solo il proprio tornaconto. Questa famiglia va sempre più acquisendo un potere dispotico sulla repubblica, dotata di due organismi: il Consiglio dei Nobili o Senato ed il Consiglio del Popolo. Il potere tirannico di Astolfo Guiderocchi arriva al punto da non accettare la pace che il Senato conclude con Fermo, ma una sollevazione popolare, capeggiata da guelfi ex ghibellini, al grido di “muoia il tiranno, evviva il popolo”, dà fuoco al palazzo dei Guiderocchi, costringendoli all’esilio. Seguono lotte accanite tra bande armate, tra agenti sobillatori interni ed esterni che deteriorano le libere istituzioni civiche. Ed i tempi sono così tristi che gli Ascolani pensano sia meglio rimettersi sotto le ali pontificie per evitare guai peggiori. Alessandro VI, nel 1502, manda in città il governatore romano Alberini, ma le cose non mutano. Le cospirazioni e le congiure, anzi, si fanno più fitte e portano all’incendio del Palazzo del Popolo e del suo prezioso archivio, nel 1535. Ai Guiderocchi seguono i Malaspina come signori assoluti. La città vive ancora un brutto periodo, non dissimile a quello di tante altre signorie più illustri del tempo. Paolo III invia in Ascoli il commissario Angelini, perché ponga un freno alle guerre intestine. Questi fa ingrandire e fortificare la rocca Malatesta a Porta Maggiore su disegno di un Sangallo fiorentino. L’anarchia materiale e morale del tempo è tale che, se da una parte nasce il riformismo religioso per un rinnovamento della chiesa, dall’altra viene fuori un gesuitismo di reazione. Tradire è la regola del giorno. In giro vanno eserciti senza paga e senza guida, costituiti da masnadieri e briganti. La guerra è il loro mestiere ed alle reazioni popolari rispondono con stupri, saccheggi, rovine ed incendi. La bella moglie di Cola dell’Amatrice, il pittore che ha lasciato in Ascoli pregevoli lavori d’arte, dà un sublime esempio di fedeltà coniugale, pagando con la vita. Inseguita da soldati ebbri della sua bellezza, non vedendo altro modo per salvare il proprio onore e quello del marito, si getta in fuga da un’alta rupe, ove il Chiaro dà nel Tronto. Morto l’energico Giulio II, tredici ascolani congiurano contro il governatore Sisto Vezio, vice-legato. Questi si rifugia in duomo, ma viene raggiunto e scannato. E’ il 1555. Non v’è limite alcuno allo scempio ed alla profanazione. Il banditismo regna sovrano e trova proseliti ovunque. Nobili esiliati, criminali comuni, cittadini perseguitati cercano nella macchia l’impunità o il rifugio. Briganti e ribelli trovano nella crudeltà non solo l’unico sistema di sopravvivenza, ma anche la rivincita di ogni loro insopprimibile desiderio di vendetta. Il legato pontificio Rocca, dopo aver giustiziato e squartato i banditi, nove alla volta, istituisce una strana usanza. Chiunque può uccidere un bandito, foss’anche lui stesso un bandito. Sono concessi pingui premi in natura o in denaro a chi dà loro la caccia. Ascoli conosce uno dei periodi più tristi e lugubri della sua storia civile, il Cinquecento. Per punirla, Pio IV toglie alla città la giurisdizione su alcuni castelli che Gregorio XIII restituirà nel 1573. Il pontefice ordina che, sotto la direzione del Sangallo, si eriga una fortezza, la Fortezza Pia, contro i nemici interni ed esterni ed allo scopo pure di coltivare la speranza di un pronto recupero delle antiche libertà comunali, divenute ormai una leggenda. L’elevazione al trono di Sisto V, di Montalto Marche, riporta un po’ d’ordine nel governo e nell’amministrazione locale. Papa rude e forte, invia in città il governatore Landriani che cattura e fa impiccare ottanta briganti. Il cardinale Sangiorgi ne arruola 572 e li spedisce in Ungheria a combattere contro i Turchi nel 1592, con grandi promesse. Agli inizi del XVII secolo, Ascoli conosce una buona pace e diventa capoluogo di un’area esclusivamente agricola, esaurite tutte le spinte industriali, commerciali e politiche dei secoli precedenti. Nasce una nuova figura sociale, il popolano, destinato a lunga vita. Questi trova lavoro, vitto e alloggio nel palazzo del padrone, più o meno ricco. Vive all’ultimo piano o in soffitta, mentre il sor occupa il piano nobile dell’edificio. Il popolano fa tutti i lavori che al padrone servono. Coltivare gli orti o i giardini della casa patrizia, fare i lavori domestici, portare via sabbia, pietre o legna dalle rive del Tronto secondo le necessità padronali, trasportare le merci. Tutto quello che ancora oggi in dialetto ascolano vien detto “le mmasciate”. Tra le varie attività commerciali, continua la lavorazione dei filati di seta che coinvolge quasi tutte le famiglie, permettendo loro di vivere alla giornata. Le cronache cittadine dei secoli XVII-XVIII registrano solo gare di famiglie, nozze e feste, miracoli, atti sporadici e proditori di masnadieri. Una vita tranquilla, vissuta tra le due rocche che signori e papi le hanno posto attorno: la Fortezza Pia e la rocca di Porta Maggiore, dove è di guardia un piccolo presidio di Corsi, fedeli guardie papaline ancor prima delle svizzere. Molti nobili ascolani, mal sopportando la lunga pace e preferendo continuare le tradizioni belliche di famiglia, si mettono al soldo di Venezia, Austria, Francia e Spagna. La città non vede né minacce né guerre di sorta, ma solo qualche passaggio di truppe straniere. La vita scorre senza turbamenti. Gli esempi di Venezia e di Firenze, promotrici di accademie agrarie decentrate, producono qualche progresso agricolo nella fertile vallata del Tronto, dove giungono pure gli echi del movimento illuminista francese. Con la rivoluzione dell’89, Ascoli subisce l’invasione delle armi straniere come altre città italiane. Scoppiati i moti del 1797 a Roma, il Consiglio generale di Ascoli decreta, il 28 Febbraio 1798, di democratizzare il governo locale, dando parte uguale del potere decisionale ai nobili, ai dotti, ai mercanti, ai contadini ed istituendo la guardia civica. Ma, partito Napoleone dall’Italia, le monarchie europee hanno buon gioco e fanno scattare i loro sensi di solidarietà per reprimere le varie repubbliche, sorte qua e là. In Ascoli la sollevazione contro la rivoluzione è generale ed a rafforzarla si aggiunge l’opera dei briganti. Famosa la figura di Giuseppe Costantini, detto Sciabolone, che riesce a capeggiare alcune bande insurrezionali, a cui si aggiungono quelle guidate dal De Donatis, uno strano prete ribelle, divenuto più tardi cappellano dei briganti. Queste formazioni, dopo un’imboscata tesa ai soldati giacobini a Ponte d’Arli, entrano in Ascoli il 23 gennaio 1799. Seguono scaramucce e tumulti che si allargano fino alle gole dell’alto Tronto con esito ancora favorevole alla repubblica. Il 12 giugno, però, Sciabolone deve, malgrado il grande coraggio, fuggire dalla città, inseguito dal generale francese Monnier, il quale lascia, per vendetta, che la città venga saccheggiata dai suoi uomini. La confusione politica è indescrivibile, un’anarchia paurosa si instaura con passaggi repentini di uomini e capi dall’una all’altra parte. Non basta la costituzione di un Governo Provvisorio per porre fine ai disordini. Bande insurrezionali sorgono dovunque e fanno del latrocinio la regola di vita. Nel 1808 Napoleone fa di Fermo, Camerino ed Ascoli una sola provincia, chiamata Dipartimento del Tronto. La città diventa così la parte più meridionale del Regno d’Italia, subordinata a Fermo. Caduto Napoleone I, autorità municipali e popolazione fanno grandi dimostrazioni di giubilo per la restaurazione del governo pontificio. Questa volta non ci sono né vendette né spargimenti di sangue, ma solo cambiamenti istituzionali: al diritto napoleonico si sostituisce quello canonico o romano, alla guardia nazionale quella provinciale, ai nuovi uomini quelli della vecchia guardia. La proclamazione della Repubblica Romana nel 1849 trova in Ascoli forti simpatie ed adesioni. Vengono mandati a Roma per l’Assemblea Costituente delle Città Libere d’Italia i deputati Vecchi e Tranquilli. Garibaldi, nel suo viaggio per Roma, passa da Ascoli e desta grossi entusiasmi tra la popolazione. Abbraccia pubblicamente Sciabolone e gli fa dono di una sua spada. Caduta Roma, arriva quale commissario straordinario Felice Orsini, divenuto famoso più tardi per l’attentato a Napoleone III. I papisti non infieriscono subito sugli avversari, anche perché Austria e Francia, che hanno stroncato la Repubblica Romana, hanno fama di essere liberali. Le vendette giungono più tardi. Una attenta censura scruta opinioni e fatti di ogni persona. Ciò malgrado, Ascoli segue con passione tutti i moti italiani che portano all’indipendenza e alla libertà. Circa 80 volontari combattono nel 1859 a San Martino. Con l’unità d’Italia, nel 1860, ad Ascoli viene restituita la primitiva dignità di centro del Piceno che il Regno Italico le aveva tolto, divenendo la città capoluogo di una nuova e grande provincia. Il resto della sua storia è nella storia d’Italia. |
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